Controcorrente. Joana Biarnés, la prima fotoreporter donna in Spagna
«Tornatene a casa a lavare i piatti!»
«Stai cercando un fidanzato?»
Erano le urla che si sollevavano dalle gradinate degli stadi quando a bordo campo arrivava il fotografo. Anzi, la fotografa, per l’esattezza, Joana Biarnés. La prima fotoreporter donna spagnola. La stessa per cui un arbitro interruppe un incontro, perché non voleva che una donna lo fotografasse. Correvano gli anni Sessanta, la Spagna era in piena dittatura franchista e la donna era madre e sposa, sottomessa all’autorità del padre e del marito. Era l’epoca in cui una donna non poteva aprire un conto corrente, prendere la patente, disporre di un’operazione di compravendita o scegliersi un lavoro senza l’autorizzazione del coniuge (o del padre, se nubile).
Figlia di un fotografo sportivo, che la iniziò all’arte della camera oscura e dell’obiettivo e le affidò la sua Leica, Joana arrivò alla fotografia un po’ per caso, un po’ per sfida. Di certo non ci arrivò inosservata.
Quando si iscrisse alla Scuola di giornalismo di Barcellona, unica donna del gruppo, il primo incarico che le affidarono fu un reportage del mattatoio della città. Nel documentario Joana Biarnés, una entre tots, la fotografa ricorda la fatica che le costò arrivare alla fine del reportage, fra l’odore nauseabondo della carne macellata e del sangue e le occhiate dei lavoratori, che la guardavano diffidenti e ostili. L’ultima cosa che vedevano in lei era una donna che lavorava, dovevano pensare che fosse andata lì a passare il tempo e a divertirsi alle loro spalle, nella migliore delle ipotesi.
«Cerca di capire» era la frase che si sentiva dire più spesso. «Che cosa ci facciamo con una donna fotografa? Anche tu, cerca di capire.» Ma lei non capì. Si adattò, si ritagliò un suo spazio e tenne duro.
Nel 1965, quando i Beatles arrivarono in tour in Spagna, a Barcellona, Joana era fra gli altri fotografi a caccia di uno scatto memorabile. Quando capì che sgomitando fra i colleghi non avrebbe ottenuto nulla di originale, andò dritta all’Hotel Avenida Palace, si infilò in un montacarichi e arrivò al piano. Bussò alla porta e disse timidamente, in un inglese incerto, che voleva scattare solo una foto. Ringo Starr dovette scambiarla per una fan un po’ suonata e la lasciò passare. Fu così che Joana rimase un’ora e mezza nella stanza d’albergo dei Beatles e ne ricavò una serie di scatti che ancora oggi, dopo aver visto le foto dei quattro di Liverpool fino alla sazietà, stupiscono per la prossimità e l’intimità che comunicano, per la loro freschezza e sincerità. Se non li riconoscessimo al primo sguardo, stenteremmo a credere che fossero davvero così famosi. Non sembrano celebrità, sembrano semplicemente quattro ragazzi come tanti, ritratti in un momento di pausa e di stanchezza in una stanza d’albergo.
Joana Biarnés nel corso degli anni ritrasse moltissime celebrità, da Orson Welles a Salvador Dalí, da Lucia Bosè a Marisol, nota attrice e cantante dell’epoca. E nei suoi scatti ciò che più salta alla vista è la confidenza, la serenità della persona ritratta, la naturalezza della posa, della situazione, del gesto colto a metà, dello sguardo senza barriere difensive.
Le foto di Joana Biarnés sono in mostra ora a Barcellona, al Palau Robert, in una esposizione che illumina alcuni aspetti della sua opera e della sua vita. E al termine, fra tante celebrità e tanti scatti, la sensazione che ci si porta dietro è soprattutto quella di una gran discrezione, dato curioso, per una donna che ha vissuto fra le celebrità.
La discrezione dell’ironia, la discrezione e il pudore con cui ha ritratto anche le tragedie (dell’inondazione del 1962 a Terrassa si rifiutò di pubblicare gli scatti più crudeli, considerando che le famiglie delle vittime avevano già sofferto abbastanza), la riservatezza con cui accoglieva le confidenze delle star senza tradirle.
Non stupisce allora che personaggi di quel calibro si sentissero a proprio agio con quella donna sempre elegante e curata, anche quando scendeva sul campo da calcio armata di obiettivo e di pazienza contro i cori del pubblico, che non si travestì mai da uomo e non finse mai di esserlo per guadagnarsi il rispetto dei colleghi.
E forse fu proprio questo, la sua determinazione a restare quella che era, senza atteggiamenti maschili, al contrario, affrontando una professione all’epoca considerata maschile con tutta la sensibilità e l’empatia del suo essere donna, a rendere le sue foto così speciali.
È proprio vero che la nostra forza spesso è anche la nostra più grande debolezza. E viceversa.
Se essere donna rese la vita di Joana Biarnés molto più dura e complicata, si rivelò anche la sua arma vincente per arrivare dove altri colleghi uomini avevano più difficoltà ad arrivare. Proprio perché percepita come meno pericolosa, meno aggressiva, per le stesse identiche ragioni, probabilmente, per cui la prendevano poco sul serio e non le affidavano gli incarichi ritenuti più adatti ai colleghi uomini. Un fotografo uomo avrebbe portato a termine il suo incarico al mattatoio senza sopportare sguardi ostili e sogghigni, probabilmente, ma non avrebbe potuto bussare tanto impunemente alla porta dei Beatles.
«È proprio vero che le foto si fanno con il cuore, non con gli occhi» ha detto la fotografa, ora che una malattia degenerativa le ha ridotto la vista al trenta per cento, senza che questo l’abbia distolta dal prendere in mano la macchina fotografica. E probabilmente è con il cuore che è riuscita anche a restare se stessa, senza rinunciare alla propria femminilità, né per adattarsi a un mondo maschile né per scimmiottarlo e di certo non per ottenere rispetto e credibilità.
Il tragitto professionale di Joana Biarnés, così come è testimoniato dalle sue fotografie, è la dimostrazione che a una donna viene spesso chiesto di scendere a patti con la propria femminilità, di nasconderla e negarla, che si tratti di farlo su un campo da calcio, in un mattatoio o durante una riunione aziendale. Ma che è proprio quella femminilità, comunque la si voglia declinare, se vissuta con sincerità e naturalezza, con umiltà e orgoglio, con onestà e ostinazione, a portarci verso i nostri obiettivi e dare loro la forma che più ci assomiglia.
Capita a volte di cedere alla tentazione di liberarci della nostra femminilità, almeno in parte, come se fosse una zavorra che ci impedisce di volare lontano in un mondo ancora dettato da leggi maschili. Nelle fotografie di Joana Biarnés ho ritrovato, fra le altre cose, la dimostrazione che non è così. Che il nostro essere donna può significare mille cose diverse, ma non è mai una zavorra, è un sorriso determinato posato sul fondo di uno sguardo capace di vedere più lontano. E di aiutare gli altri a fare altrettanto.