Il capitano
Questo racconto è un regalo per le lettrici che hanno letto e amato la serie “Legio Patria Nostra” e in particolare il personaggio di Valerio Corvino, capitano del ROS. Poche pagine per conoscerlo meglio e cogliere, con discrezione, un fotogramma della sua vita. Non è finita qui, naturalmente: il capitano vi dà appuntamento nel suo romanzo che sarà il quarto volume della serie.
Roma, ottobre
Con un sospiro profondo, Valerio Corvino rotolò il più lontano possibile dal suono molesto. La sveglia continuò a squillare finché non la mise a tacere con una manata.
Dalla finestra socchiusa arrivò il rumore della saracinesca del bar di Ettore. Sei e mezza in punto e gli parve di sentire l’aroma del caffè. Incredibile come il cervello potesse associare profumi e ricordi.
Tornato padrone del corpo, il suo cervello associò alla parola “profumo” la fragranza di agrumi della giornalista che aveva bloccato contro la parete di un ascensore qualche giorno prima.
Maledizione, avrebbe potuto denunciarlo per abuso di potere. Che gli era preso?
Era incazzato. Lei era una giornalista e lui i giornalisti li odiava, soprattutto quelli ficcanaso. Una ficcanaso con un cappotto di lana, un morbido maglione color avorio sopra i jeans, i capelli scuri sciolti sulle spalle. Aveva notato una catenella intorno al collo, ma il pendente era in parte nascosto dall’ampio risvolto del maglione. Non aveva un filo di trucco, non che ne avesse bisogno.
Ricordava tutto di lei, anche la fragranza che le aleggiava intorno lo aveva colpito: limoni, mare azzurro, scogli. Capri, Sorrento, le vacanze e la sua barca a vela, ecco cosa aveva pensato quando aveva avuto il suo fragile corpo tra le mani.
Aprì una palpebra e adocchiò il cellulare.
Devo alzarmi, porca Eva.
Eva. Ecco come si chiamava la giornalista che profumava di agrumi. Strano ricordarne ancora il nome e, in quel momento, con un’istantanea associazione di idee, gli venne in mente la conferenza stampa.
*
La sala stava per essere invasa dai rappresentanti dei media. Mestiere sporco, quello del giornalista, da parassita.
Dalla porta socchiusa spiò le sedie pieghevoli ancora vuote, il lungo tavolo con i microfoni e le bottigliette di acqua allineate come ubbidienti soldatini.
Cinque minuti e avrebbe dovuto affrontarli.
Toccava a lui, capitano del ROS Valerio Corvino, fornire alla stampa i dettagli dell’indagine battezzata “Operazione Annibale”. I signori della droga del Messico avevano invaso prima il Nord Africa e poi, attraverso la Spagna, erano dilagati in Europa come nell’antichità aveva fatto il grande generale cartaginese.
Piuttosto che affrontare quella mezz’ora davanti ai microfoni Corvino avrebbe preferito passare altri sei mesi come infiltrato in qualche metropoli europea.
Controllò l’uniforme e sistemò il cappello d’ordinanza, abbassando un poco la visiera.
Non che si vergognasse della cicatrice che gli sfregiava la guancia destra, il taglio netto della pugnalata che gli avevano sferrato alla fine di lunghi mesi vissuti sotto copertura, in Olanda. La sua era solo un’indole schiva e scontrosa.
Quasi senza rendersene conto sfiorò lo sfregio. Quel marchio lo aveva reso troppo riconoscibile e quindi, una volta dimesso dall’ospedale milanese in cui era stato ricoverato, aveva dovuto riprendere il servizio attivo in caserma con tutte le seccature del caso.
Per quanto riguardava il suo volto, dopo un po’ aveva smesso di farci caso, a meno che qualche imbecille non lo fissasse a bocca aperta. Il dottor Roversi, il chirurgo di fama mondiale che lo aveva operato, gli aveva proposto un altro intervento, ma lui non aveva nessuna intenzione di sottoporsi a un secondo calvario.
Aveva altro a cui pensare.
Le porte della sala si spalancarono e i giornalisti sciamarono come cavallette, tra le mani iPad, iPhone, taccuini, registratori. Chissà cosa se ne facevano di tutti quegli apparecchi elettronici, tanto avrebbero scritto o raccontato l’opposto della verità.
Augurandosi che le sedie fossero scomode, prese un profondo sospiro e fece un cenno al maresciallo Bonatti e all’altro sottufficiale.
«Entriamo nell’arena» disse mentre abbassava la maniglia, un ghigno sardonico stampato in faccia. «E guai a voi se sorridete.»
***
Eva Paganelli puntò una sedia e allungò una mano per impossessarsene prima che quello stronzo di Alfredo Lanfranchi, cronista di La Repubblica, se l’accaparrasse. Si guardarono in cagnesco, poi lui sollevò entrambi i palmi in segno di resa.
«Prima le signore, ci mancherebbe» disse con un’espressione che non si accordava al tono melenso.
«“Signore” detto con quel tono sembra un insulto, Lanfranchi.»
Il collega le si avvicinò un po’ troppo, abbassando la voce. «Parliamone, Eva. A cena a casa mia, stasera.»
«Manco morta.»
Lanfranchi prese posto due sedie più in là, riservandole un sorrisetto che le diede i brividi. Perché era uscita con lui?
Era stanca di sopracciglia sottili, corpi depilati più accuratamente del suo e uomini che, dopo il sesso, le rubavano la crema idratante.
Cheap sex, lo chiamava la sua amica Monica: sesso a buon mercato, e aveva ragione.
Non voleva innamorarsi, aveva una carriera a cui pensare, ma in un compagno di letto cercava un maschio dalla punta dei capelli alla punta dei piedi ed esigeva anche un po’ di sacrosanto pelo virile collocato nei punti strategici.
Com’è che era uscita per un mese con quel tipo? Ah sì, aveva provato ad adattarsi alla nuova identità dei maschi italiani, che però, alla resa dei conti, non facevano per lei. Era sicura che, insieme ai peli, si strappassero anche la virilità.
La breve storia con verme-depilato-Lanfranchi era stata un fallimento anche da un altro punto di vista: non aveva mai conosciuto un essere più falso, viscido e sfruttatore di lui.
«Ciao Paganelli, come va in redazione?»
Eva si voltò e fissò la sua vicina di sedia, Michela Colizzi, giornalista de La Stampa.
Chioma rosso fuoco, occhi verdi e vivaci, tra le mani sempre la notizia giusta, fasciata da un tailleur color avorio di Armani che le stava come un guanto di lattice sulla mano di un chirurgo.
Eva abbassò gli occhi sul proprio cappotto stropicciato, sui jeans attillati e sul maglione slabbrato che le copriva i fianchi.
Non sono qui per una sfilata, pensò, ma dopo aver dato un’occhiata anche alle All Stars stampate in mimetico, agganciò i piedi alle gambe della sedia e sospirò scarabocchiando sulla pagina bianca del suo taccuino: Rivedere guardaroba basico.
«Si tira avanti, Miki. E tu sei riuscita a strappare un’intervista a Diego della Valle?»
«Secondo te?»
«Lo sapevo, sei una grande. Quando la pubblicano?»
Miki alzò gli occhi al cielo. «Lascia stare, il pezzo andrà la prossima settimana.»
«Sempre per colpa del tuo capo redattore?»
«Sempre lui, quel decerebrato.» Miki tirò fuori il minuscolo registratore portatile, un oggetto degno della trama di un film di 007. «Cambiamo discorso per favore, altrimenti mi rovino la giornata.» Si guardò intorno e abbassò la voce. «Allora, come va con Lanfranchi?»
«Non te l’ho detto? Mollato qualche settimana fa.»
«Quanto è durata?»
«Un mese, in realtà pochi giorni, se conti che lo vedevo solo durante il fine settimana.»
«Non era quello giusto» disse Michela in tono lapidario.
«Lo so, mi avevi avvisata. Eppure sembrava intelligente, di successo…»
«… arrogante, ottuso e leccaculo. Ricordi quello che ti dissi? Per un pezzo da prima pagina venderebbe a un cartello della droga non solo la madre ma tutta la famiglia, compresi i minori.»
«Adesso so che avevi ragione» replicò Eva scambiando un cinque con l’amica.
Miki le appoggiò una mano sul braccio con fare cospiratorio. «È meglio così. La tua carriera è più importante. E fai come me: investi lo stipendio in abiti di lusso anziché nei locali notturni alla ricerca di un uomo inesistente.»
«Contaci, anche perché, se il mio principe azzurro si facesse avanti, con la fortuna che ho verrebbe investito da un TIR mentre attraversa la strada per venirmi incontro.»
«Te l’ho sempre detto: per quanto mi riguarda, l’ultimo principe sulla Terra è morto dopo aver sposato Cenerentola.»
«Non starò più impalata in un angolo ad aspettare il prossimo stronzo, questo è certo.»
«Bene, l’hai capita. Bisogna sceglierli come si fa con un paio di scarpe e ragionare se ti andranno bene o ti faranno stancare troppo presto a una serata mondana… Oddio, eccolo!»
L’amica si piazzò sul bordo della sedia, stringendo tra le mani il suo registratore.
«Eva, ti prego» le bisbigliò, «se emetto dei sospiri languidi o qualsiasi altro suono tirami un diretto in faccia.»
La fissò stralunata. Cosa stava succedendo alla donna più cinica che conoscesse? Gli occhi le brillavano come quelli della sua gatta Iside quando capiva che per cena c’erano acciughe fresche.
Seguì il suo sguardo. Tre carabinieri in divisa stavano prendendo posto dietro al lungo tavolo su cui erano sistemati microfoni, bottigliette d’acqua e una pila di bicchieri di plastica.
Come giornalista di cronaca nera, aveva imparato i gradi delle forze dell’ordine perché non poteva permettersi figuracce durante le interviste, così riconobbe due sottoufficiali e un capitano. Quest’ultimo stava trafficando con uno dei microfoni, ma quando sollevò il volto per un fugace sguardo al pubblico, Eva raggelò.
Non poteva essere lui.
Non doveva essere lui.
Lo era.
Ebbe due secondi per riprendere il controllo e sussurrare disinvolta all’amica: «Diciamolo, Michela Colizzi, anche tu sei umana».
«Diciamolo, Paganelli, farei più di un giro di giostra con uno così» puntualizzò Michela, senza curarsi di nascondere il sorriso ebete che le era fiorito sulla faccia.
No, Miki non era ebete, la vera ebete era lei.
Come aveva fatto a non associare quelle spalle, il modo di muoversi ma soprattutto la statura insolita di quel capitano al carabiniere che qualche giorno prima l’aveva strapazzata all’ospedale, in un ascensore di servizio?
Eccolo lì, insolente, arrogante e… pericoloso. Sì, Valerio Corvino era pericoloso e nemmeno dopo una botta in testa avrebbe potuto essere considerato innocuo. Con quel suo aspetto aveva il potere di far supplicare una donna, in parecchie lingue e magari anche in ginocchio.
Incrociò le braccia sul petto, aggrottò le sopracciglia e valutò le uscite di emergenza del salone. Impossibile sgattaiolare via inosservata. Si rassegnò, agitata e innervosita, sentendosi una pessima giornalista e una altrettanto pessima bugiarda. Eppure ci provò.
«Se può consolarti, non è davvero male, anche se mi ricorda un malavitoso in libertà provvisoria, altro che carabiniere. Ma come mai non l’ho mai visto prima?» mormorò disinvolta.
Per fortuna, l’amica non mise in dubbio la sua sincerità.
«Da quanto tempo sei alla nera?» le chiese Miki facendosi aria al viso con una mano.
«Tre mesi.»
«Allora ti perdono per non averlo notato prima. Valerio Corvino è stato un infiltrato per anni, poi, a causa di quella cicatrice… la stai guardando?»
«Eccome.»
«Brava. Dicevo, a causa di quello sfregio sul volto ha dovuto riprendere il servizio attivo.»
In quel momento entrò anche il questore e ci fu un po’ di tramestio. Il capitano Corvino si scostò per lasciarlo passare e finalmente posò quel suo corpo muscoloso sulla sedia al centro.
Anche seduto sovrastava tutti.
Quanto poteva essere alto? Un metro e novanta, almeno. La cicatrice sulla guancia destra era netta e più scura sulla pelle olivastra; aveva l’aria stanca o forse seccata, gli occhi segnati da ombre e le piccole rughe ai lati della bocca erano più accentuate.
Eva rimase di nuovo colpita dalla straordinaria unicità del suo volto e dall’azzurro limpido delle iridi, che distingueva bene nonostante fosse in seconda fila.
Dieci decimi per sbavare su uno stronzo. Complimenti, Paganelli, sei proprio una lince, pensò e poi fece una considerazione assolutamente insensata: quel tizio stava bene anche con la divisa, che gli cadeva addosso come un abito cucito da un sarto parigino.
Se lo era pure sognato, ma in quel caso non aveva né giubbotto di pelle né abiti francesi, perché lei era una ragazza dell’hinterland milanese che andava subito al sodo. Il capitano, in quel frangente, stava disteso sul letto come un pascià, maestosamente nudo, appoggiato a una pila di cuscini di seta viola e arancioni.
Lei aveva chiuso le vaporose tende, spento tutte le luci…
La legna crepitava nel camino, l’atmosfera si era fatta oscura, intima, perfetta per i giochi di due amanti. Poi lui si era toccato il cappello d’ordinanza e lei si era svegliata tutta sudata.
Eva strinse la penna che aveva in mano e scarabocchiò qualcosa in fretta, fiorellini, triangoli, stelle sbilenche, e fissò il cartellone appeso dietro ai tre ufficiali e al questore, una cartina dell’Europa con l’Italia in verde scuro e le città principali, Milano, Roma e Napoli, evidenziate in giallo.
Tornò con gli occhi su di lui.
Corvino stava scrutando il pubblico senza fissare nessuno in particolare, uno sguardo da padrone del mondo. Sprezzante, seccato.
La voce di Miki la raggiunse da lontano.
«Non fa mistero del suo astio per i giornalisti, tanto che i suoi battibecchi con alcuni di loro sono proverbiali.»
Eva trattenne il respiro e si nascose dietro la testa ricciuta del tipo che le stava davanti. Come le era saltato in mente di sedersi in seconda fila? Si girò a sinistra e fissò l’ignaro verme-depilato-Lanfranchi con astio.
Colpa sua anche questo.
«Corvino ha il potere di farmi scordare il lavoro, ci credi?» le bisbigliò Miki.
Eva annuì, rassegnata. «Ci credo.»
«Ma hai visto che naso? E la bocca? Che cosa può farti un uomo con quella bocca?»
Il naso, stretto e aquilino, è assolutamente perfetto, pensò Eva, ma questo lo aveva già constatato la prima volta. A un occhio critico, la mascella sarebbe potuta sembrare troppo affilata, ma in realtà conferiva al suo viso una forza che altrimenti sarebbe mancata.
Dettagli essenziali, che si componevano per dar vita a un volto che era al tempo stesso particolare e attraente. Ma ciò che più colpiva in quell’insieme virile era l’espressione franca, priva di artifici. Gliela si leggeva in quelle iridi azzurre splendide e fredde. Aveva torbidi segreti, aveva provato sensazioni estreme, assaporato libertà e vissuto esperienze che lei poteva solo immaginare.
«Pensa all’articolo, Miki» disse senza riuscire a concentrarsi lei per prima. «Guadagnati lo stipendio.»
«In questo momento vorrei fare un altro mestiere. Che so, rapinare banche.»
«Ti arresterebbe.»
Miki si voltò verso di lei con un gran sorriso. «Sei perfida, adesso mi sto immaginando una notte con lui tra le sbarre.»
Il microfono gracchiò e l’indice di Corvino ci picchiò sopra. Una scarica negli altoparlanti e una voce profonda e roca si diffusero nella sala zittendo tutti.
Eva si sporse, troppo curiosa e attratta come da una calamita per restare nascosta.
«Buongiorno» disse lui in tono cordiale, ma gli occhi restarono cupi, severi, un’espressione che ebbe il potere di metterla a disagio sebbene non fosse diretta a lei.
Il ricordo di quegli istanti in cui lo aveva avuto a qualche centimetro dal viso la fece avvampare.
Il capitano cominciò il resoconto. Si dilungò sull’antefatto, sul primo caso di omicidio per overdose; su come, indizio dopo indizio, avevano potuto smascherare l’organizzazione in tre lunghi anni di lavoro. Le sue iridi intanto passavano in rassegna i presenti, come il sonar di un sommergibile in missione. Ogni giornalista veniva notato e catalogato.
All’improvviso i loro sguardi si agganciarono ed Eva trattenne il fiato. Non mi riconosce, non mi riconosce.
Per qualche istante sperò, poi le parve di vedergli battere le palpebre, un piccolo movimento impercettibile. Illusione? Autosuggestione? Dovette chiudere gli occhi per cancellare la sensazione di disagio.
Quando l’occhiata sfilò lontano da lei, esultò. È andata! E si rilassò contro la spalliera della sedia che sembrava coperta di chiodi.
Cavoli, con quella faccia avrebbe potuto gestire un cartello della droga, fare il killer di professione o freddare il direttore di una banca uscendo indisturbato dall’ingresso principale. Oppure poteva distruggere una donna con danni incalcolabili.
D’improvviso, gli occhi di lui la puntarono di nuovo come la bocca nera di una pistola e lì rimasero.
Su di lei.
Altro che sonar.
Le sfilò il cappotto, le sollevò il maglione, strappò il reggiseno con i denti e tanti saluti all’elastico. Tutto ciò con quegli occhi impassibili, che le incendiarono anche i capelli tanto erano intensi.
Lei sussultò per la sorpresa, mentre il capitano continuava a parlare della fruttuosa collaborazione con gli uomini della DEA statunitense, le labbra sensuali increspate in quello che solo una donna sotto morfina avrebbe potuto catalogare come un sorriso.
Lei non lo fece.
«Lo conosci?»
E brava Michela, dalla mente affilata come la katana di un samurai!
«Chi?» fece lei senza davvero credere di poterla depistare.
«Ti ha guardata, Eva. Anzi, direi che con quell’occhiata ti ha mangiata come il lupo fa con la nonna di Cappuccetto Rosso.»
Accorgendosi di aver alzato la voce, l’amica si guardò intorno e quindi la ridusse a un flebile bisbiglio.
«Se ci sei andata a letto voglio sapere tutto e, quando dico tutto, intendo da quando è entrato in camera a quando ha rimesso di nuovo i pantaloni.»
Corvino diede via al question time col tono del padrone che richiama i cani al guinzaglio.
«Non dire sciocchezze, Michela. Non gli ho mai neppure rivolto la parola.»
L’altra non sembrò averla udita. «Sai che cosa vorrei sapere, più di tutto? Se usa jeans con i bottoni o la cerniera e che tipo di slip indossa. E se li porta.»
«Miki, smettila.»
«Secondo me non li porta» dichiarò l’amica meditabonda, dopo una lunga, intensa riflessione.
La voce di lui era secca mentre diceva a qualche cretino di un suo collega: «Non posso rispondere a questa domanda, sono informazioni riservate. Un’altra, prego».
Eva ripensò al loro incontro. Solo pochi minuti che, nel suo caso, erano bastati per una vita intera.
«Alfredo Lanfranchi, La Repubblica. Capitano, lei non ci sta aiutando. Capisco la riservatezza dell’indagine ma non ci ha detto niente che già non sapessimo.»
Sapientone, la vita ti fa schifo?, pensò Eva e immaginò il verme con una guancia spiaccicata contro un muro e il volto tenebroso di Corvino a un soffio dal suo orecchio a sventola. Le sfuggì un sorriso e compatì l’uomo che si era alzato in piedi due sedie più in là.
«Sappiamo che il traffico si svolgeva tra Milano, Roma e Napoli, sappiamo che l’indagine è chiusa, perché non collabora con noi della stampa? A volte è utile, sa? Intendo, avere degli amici giornalisti» insistette il sapientone.
Un brusio si levò dal pubblico.
Corvino si chinò per parlottare con il questore, poi tornò a posare gli occhi su Lanfranchi.
«Questo è quel che crede lei. Ma l’amicizia con la stampa non è una mia priorità. Un’altra domanda, prego.»
«Mi attengo ai fatti, capitano. Gli avvocati del principale indiziato sostengono che non avete prove. Possibile che non abbia fatto rivelazioni?»
Sì, è proprio un invertebrato, non poté fare a meno di ragionare Eva.
«Lanfranchi, le nostre non sono teorie ma fatti, prove. Carrisi non è un collaboratore di giustizia e le sue dichiarazioni sono al vaglio degli inquirenti. Di più non posso dirle.»
Eva ebbe la tentazione di alzare la mano, aveva una domanda sulla punta della lingua.
«Altro?» Corvino guardò l’orologio. «Il tempo a vostra disposizione sta per terminare.»
Un accavallarsi di voci, qualcuno scattò delle foto, lei aprì bocca, ma Lanfranchi non mollava.
«Capitano, è vero che la cicatrice gliel’hanno fatta gli uomini dei cartelli della droga messicana? Questa indagine appena conclusa è una vendetta personale?»
Il gelo calò sulla sala.
Corvino si mosse sulla sedia, in faccia aveva dipinto quello che avrebbe voluto fare: superare il tavolo con un balzo, afferrare Lanfranchi per la gola e strapazzarlo un po’ come aveva fatto secoli prima quel buontempone di Vlad III, l’Impalatore di Valacchia.
Invece afferrò una bottiglietta.
La stappò.
Il silenzio si protrasse così a lungo che si udì il sibilo dell’anidride carbonica. Lento, Corvino prese un bicchiere, lo riempì, ne sorseggiò il contenuto.
Ho tutto il tempo del mondo prima di ucciderti, pirla, pensò Eva, a cui sembrava di essere entrata nel cervello del carabiniere. Quasi gongolò mentre accompagnava i lentissimi gesti di lui con la sua fervida e vendicativa immaginazione. Se si trattava di far soffrire Lanfranchi, si sarebbe alleata con Lucifero in persona.
Infine Corvino si sistemò meglio il microfono all’altezza della bocca.
«Lei ha esaurito le domande, Lanfranchi, e il mio passato non è pertinente.»
A questo punto valutò la folla e i suoi occhi la scovarono di nuovo, socchiuse le palpebre e la mise bene a fuoco.
Eva ricordò la forza di lui quando l’aveva spinta in malo modo contro la parete.
In quel momento il suo braccio si sollevò verso l’alto mosso da una forza incontrollabile, e la domanda, che teneva in serbo da un po’, le uscì con l’energia di una fucilata.
«Capitano, sembra che alcune ragazze siano state picchiate, violentate e rinchiuse in un magazzino per poi essere costrette a spacciare. Cosa ci può dire in proposito?» gli chiese Eva, conscia che la domanda avrebbe focalizzato l’attenzione di tutti su un ramo dell’indagine che non competeva al ROS. La sua era una vera e propria provocazione e se ne rese contro quando era ormai troppo tardi.
Qualcuno si schiarì la gola, si udì il fruscio di fogli e qualche bip dei dispositivi elettronici, una penna che cadeva sul pavimento e il bisbiglio concitato di Miki di fianco a lei: «Dichiara la testata per cui lavori, accidenti a te».
«Eva Paganelli, per Roma Oggi» specificò Eva.
«Lo so chi è lei, Paganelli. Mi dispiace, la sua domanda è fuori tempo massimo. La conferenza stampa è finita, buona giornata e grazie a tutti.»
Oltre alla delusione che la fece arrossire, udì l’ansito di sorpresa dei colleghi.
Stronzo.
*
Stava per uscire dalla sala quando uno dei due sottufficiali le si avvicinò.
«Signorina Paganelli?»
«Sono io. Che succede?»
«Il capitano Corvino mi ha detto di ricordarle il vostro appuntamento. L’aspetta nel suo ufficio, posso accompagnarla?»
Eva aprì bocca per negare, ma gli occhi di Miki brillavano incuriositi e, se fosse rimasta, avrebbe dovuto rispondere alle sue domande.
«Grazie, è molto gentile da parte sua. La seguo.» Si voltò verso l’amica e fece spallucce.
«Vai, Eva, e ricordati: mi devi raccontare tutto, ma proprio tutto, capito?» E l’amica si allontanò con pollice e mignolo tesi vicino all’orecchio, come a dire: non hai scampo, ti chiamo più tardi.
Eva rovistò nella borsa mentre il giovane in divisa teneva la porta aperta. Spense il cellulare, non lo avrebbe riacceso fino all’indomani.
Imboccarono un corridoio.
Molte ipotesi le balenarono nella mente, non tutte positive. Non era mica in arresto, no? Diede un’occhiata alle proprie spalle e aprì bocca per trovare una scusa per andarsene, ma la richiuse di scatto e continuò a seguirlo.
Colpa della curiosità.
Che cosa voleva da lei Corvino? Aveva mentito, dichiarando che avevano un appuntamento.
Era abbastanza intrigata e su di giri da avere voglia di dirglielo in faccia, quello che pensava di lui. Cercò di essere ottimista, forse voleva rispondere alla domanda che gli aveva fatto e non era più incazzato con lei.
Sì, e il mio fondoschiena parla come quello di Jennifer Lopez, pensò sconsolata.
Questa volta non sarebbe riuscita a sfuggirgli, era nella sua tana e avrebbe dovuto dargli spiegazioni sul blitz all’ospedale di Napoli di qualche giorno prima.
Uno dei suoi informatori le aveva fatto una soffiata: cinque donne erano state portate al Cardarelli, tracce di violenza e tentato omicidio. Era stato fatto il nome di un noto faccendiere napoletano, già invischiato in una brutta storia di prostituzione minorile.
Il bastardo a quanto pareva ne era uscito pulito, ma lei non dimenticava mai il suo motto preferito: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Così aveva deciso di indagare di persona, visto che aveva tutte le intenzioni di tirarci fuori una notizia da prima pagina.
Arrivata a Napoli in treno si era subito diretta in taxi al Cardarelli, per investigare direttamente in ospedale. Durante l’ora delle visite nessuno l’aveva fermata e, dopo aver gironzolato nei corridoi affollati di parenti, aveva individuato la porta della camera di una delle donne, defilata e piantonata da un carabiniere.
Le avrebbe fatto un’intervista, sarebbe stato lo scoop dell’anno di Roma Oggi.
Al piantone davanti alla porta si era presentata con il volto addolorato.
«Sono sua cugina» gli aveva raccontato con le lacrime agli occhi, un fazzolettino di carta in mano.
Con espressione comprensiva, il giovane si era spostato di qualche centimetro desideroso di compiacerla, e forse, con un po’ più di sforzo e di tempo a disposizione, sarebbe anche riuscita a entrare ma, a un tratto, una sagoma si era materializzata dietro di lei, il carabiniere era arrossito sotto la visiera e, pur non facendo il saluto militare, aveva bofonchiato un istantaneo e definitivo “buongiorno signor capitano”.
Eva si era sentita afferrare per un braccio, una presa forte ma non dolorosa, ed era stata tirata all’indietro e trascinata fino all’angolo del corridoio che portava alle scale di servizio.
Si era girata con l’intento di aggredire quel maleducato ma si era sentita piccola e indifesa, cosa che non le capitava da quando Enrico Tosini, il suo primo spasimante indesiderato, l’aveva bloccata in un angolo per sbaciucchiarla a San Valentino. Il piccolo bastardo ne era uscito con un occhio nero e la bava alla bocca (e non di libidine ma il risultato del dolore per essersi morsicato la lingua durante il contraccolpo).
Eva aveva considerato l’ipotesi di sferrare un diretto anche a quello sconosciuto, il fatto che fosse un pubblico ufficiale non lo aveva neppure preso in considerazione, ma l’intenzione era durata solo un millesimo di secondo.
Era di tre teste più alto di lei, la giacca non nascondeva il fisico allenato e imponente e il suo volto era rovinato da uno sfregio che parlava di violenza e brutalità.
Non aveva potuto neppure distogliere lo sguardo dagli occhi azzurri chiarissimi, inflessibili, che indugiavano su di lei con un interesse clinico e calcolatore.
Dalla sua bocca non era uscito alcun suono, se non rapidi respiri alla ricerca di ossigeno. Insomma, era ridotta allo stato catatonico solo a un’occhiata.
Così erano rimasti a sfidarsi per qualche istante, entrambi muti, lei tutta presa dal tentativo di non farsi suggestionare dalla sua imponenza fisica.
A parte quel lampo di colore nelle iridi, per il resto era come scolpito nell’onice nera: i capelli cortissimi, la giacca di camoscio, la t-shirt che segnava i pieni e i vuoti del torace, i jeans aderenti.
Maschio senza tentennamenti né dubbi. Il suo uomo ideale: virile, peloso, una forte carica di testosterone e le sopracciglia spesse.
Dio esiste ma, se avesse detto la cosa sbagliata, si sarebbe ritrovata in un mare di guai.
In quel momento avevano sentito le porte di un ascensore aprirsi, due medici vestiti di verde ne erano usciti chiacchierando dell’ultimo intervento eseguito.
L’uomo aveva guardato prima l’ascensore aperto e poi lei e, con tutta la malagrazia possibile, la scena di prima si era ripetuta: l’aveva afferrata per un braccio e trascinata verso la cabina.
Questa volta Eva aveva tentato di ribellarsi.
«Non pensarci neppure» gli aveva sussurrato lui spingendola all’interno. «Sono anni che sogno di ammanettare una giornalista.»
Il cuore di Eva si era fermato, la cabina invece si era messa in movimento.
«Lei mi sta sequestrando, come si permette?»
Finalmente era libera, anche se bloccata tra quel corpo ingombrante e il freddo rivestimento metallico dell’ascensore. Stava per aprire bocca, ma lui era stato più pronto.
Aveva appoggiato un mano grande quasi come il suo viso a qualche centimetro dal suo orecchio destro e il volto tenebroso aveva occupato tutta la sua visuale. Un sopracciglio sollevato, la bocca curvata in un ghigno.
«Parenti serpenti. Escono dalle tane nei momenti peggiori» le aveva sussurrato, e quel primo piano di faccia sfregiata era davvero sconcertante.
La soffiata però le era costata parecchie centinaia di euro e, alla fine, Eva aveva ritrovato la parola.
«Lei chi è? Che cosa vuole?»
L’uomo aveva inclinato il capo studiandola mentre trafficava nella tasca posteriore dei jeans. Le aveva mostrato il tesserino di riconoscimento.
Capitano Valerio Corvino. Stava per leggere la data di nascita, ma il documento era sparito.
«Capitano» aveva esordito, quasi fosse una professoressa del liceo davanti a un alunno un po’ ottuso. «Stavo andando a trovare mia cugina. È proibito?»
Corvino aveva tirato gli angoli di quelle labbra immorali. No, non in un sorriso.
«Favorisca un documento, signorina.»
«Siamo in un paese libero, non ho fatto nulla di male. Le ripeto, sono in visita a mia cugina.»
Lo scoop del secolo e cinquecento euro stavano per andare in fumo. L’ascensore era arrivato all’ultimo piano e le porte scorrevoli si erano aperte.
«Mi dia un documento, in modo che possa accertarmi che lei sia quella che dice. Non ha la faccia di una cugina.»
«E che faccia hanno le cugine, mi scusi?»
«Più simpatica di quella delle giornaliste.»
«Questa poi!»
«Mi mostri un documento, non glielo chiederò più con tanta gentilezza.»
Non era riuscita a trattenere uno sbuffo derisorio. «Lei non ha proprio la minima idea del significato della parola gentilezza, capitano Corvino» aveva brontolato, badando bene a non sfiorarlo mentre rovistava nella borsa.
Le stava così vicino. Il calore, il profumo della giacca, pelle conciata con un’altra sfumatura meno riconoscibile le avevano provocato una vampata di calore al centro del ventre.
La carta di identità le era sfuggita di mano e, mentre il carabiniere si era chinato per raccoglierla, era stata abbastanza scaltra e temeraria da infilarsi al volo tra le porte che si stavano aprendo proprio in quel momento.
Sgusciata fuori, si era lanciata come una scheggia verso la porta a vetri che separava le scale da un reparto ma, quando aveva afferrato e spinto il lungo maniglione antipanico, l’anta non si era aperta.
Maledizione!
Passi veloci, un urlo di frustrazione e un sussulto quando il capitano era arrivato alle sue spalle e l’aveva fatta voltare.
«Calma, Paganelli. Si calmi.» Con due dita le stava ridando il documento d’identità. «Non faccia più una tale sciocchezza. Una notte in caserma sarebbe per lei e il suo giornale solo cattiva pubblicità.» La voce di lui era melliflua, per niente rassicurante.
«Sentiamo, con quale accusa mi arresterebbe?»
«Resistenza a pubblico ufficiale. Adesso mi segua.»
Era tornato verso l’ascensore. Le porte si erano richiuse dietro di loro, lui aveva schiacciato il tasto del secondo piano.
«Ci facciamo un giretto, Eva Paganelli, giornalista. Per quale testata lavora?»
«Non sono affari suoi, capitano Corvino. Fermi questo trabiccolo o la denuncio per abuso di potere.»
«Prima voglio sapere chi le ha fatto la soffiata.»
«Sono venuta di mia spontanea volontà e, da adesso in poi, non le rivolgerò più la parola se non in presenza del mio avvocato.»
Aveva dovuto resistere ancora per qualche minuto. Braccia incrociate, in attesa che il movimento sotto i piedi cessasse e le porte automatiche si riaprissero.
Lui era tornato a bloccarla come qualche istante prima, più di prima. Entrambe le mani per chiuderla di nuovo contro la parete. Schiacciato un altro tasto, lo scatto della partenza lo aveva spinto verso di lei, il naso le aveva sfiorato una guancia.
«Se vuole interrogarmi mi porti in caserma, ma l’avviso, il mio avvocato morde come un mastino.»
«Lei è una donna incostante, mi rivolge di nuovo la parola e non vedo avvocati in giro.»
«La sto avvisando.»
«Forse dovrei denunciarla io per molestie.»
«L’unica molestia che merita è una botta in testa.»
Quello era un sorriso? Mio Dio.
«Ora le minacce. Mi sa proprio che dovrò arrestarla.»
Il carabiniere aveva spostato un braccio, forse per prendere le manette come i poliziotti dei film americani, e in quel momento Eva aveva intravisto nella fondina ascellare il calcio di una pistola, nero e minaccioso. Rinsavita, aveva chiuso la bocca.
«Visto che sembra aver perso la favella, le darò un consiglio. Adesso l’accompagno nel sotterraneo, poi andiamo dritti dritti verso il parcheggio dei taxi. Si farà accompagnare in stazione e, una volta a casa, si faccia una doccia fredda e dimentichi l’intervista. Sono stato abbastanza chiaro?»
«Non ci posso credere, adesso è lei che mi sta minacciando.»
Il suo sguardo penetrante l’aveva valutata con lentezza.
«È un consiglio da amico.»
«Lei non è mio amico, capitano.»
L’espressione di lui si era fatta sarcastica.
«Potrei diventarlo, la vita a volte riserva piacevoli sorprese.»
Un calore improvviso si era agitato dentro di lei per quelle parole e il tono con cui le aveva pronunciate.
«Questa non sarebbe piacevole, Corvino, mi creda» gli aveva risposto e non si era più voltata indietro, anche se i passi e lo sguardo penetrante di lui l’avevano seguita fino a quando non era salita su un taxi.
*
Seduto dietro la scrivania, il cappello in un angolo, il capitano leggeva. Quando alzò gli occhi a Eva parve che l’aria evaporasse. Udì il clic della porta che si chiudeva ma non riuscì a muoversi.
«Si sieda, Paganelli, e non mi guardi come se avessi le zanne. È il suo avvocato che è un mastino, non io.»
Se ne ricorda, pensò. Si ricorda tutto.
Deglutì qualcosa di ingombrante che le si era conficcato in gola e ubbidì, ma rimase sul bordo della sedia mentre lui infilava i fogli in un cassetto e si appoggiava con i gomiti alla scrivania, polpastrelli uniti, indici sopra le labbra.
Oh mio Dio, se ci fosse Miki.
«Poco fa, durante la conferenza stampa, lei mi ha fatto una domanda, Paganelli.»
«Sì, è così.»
Eva si sforzò di calmare il proprio respiro.
«Non ho intenzione di risponderle.»
Lo guardò rilassarsi contro lo schienale, l’espressione compiaciuta.
«Se non ha intenzione di rispondermi, allora perché mi ha fatta venire qui?»
«Frustrante, vero?»
Corvino si limitò a sorriderle e lei si sentì avvampare, la mente inondata dai ricordi. Si alzò di scatto, il rumore della sedia fu sgradevole sul pavimento.
«Sarà meglio che me ne vada, non può trattenermi e non abbiamo nulla da dirci.»
Già diretta verso la porta, udì il suo tono persuasivo. «Paganelli, si sieda, la prego.»
Calmati, si disse. Non essere idiota, non mostrare il tuo nervosismo. Fallo parlare, se ti ha voluta qui vorrà qualcosa e, qualsiasi cosa sia, potrebbe esserti utile per un articolo. Forse ha cambiato idea e ti concederà l’intervista. Forse vuole darti l’esclusiva.
Tornò verso la scrivania, si sedette, appese la borsa allo schienale e accavallò le gambe più tranquilla.
«Per lei va bene se ricominciamo daccapo?» le disse lui, un luccichio negli occhi, l’aspetto rassicurante di una pantera nera.
Allora aveva ragione, le stava offrendo un ramoscello d’ulivo. Eva gli concesse il suo primo sorriso sincero.
*
Non c’era stato nulla di premeditato. Non da parte sua, almeno.
Corvino si era mostrato freddo, impersonale ma corretto, e le domande le aveva fatte lui, l’aveva tartassata, voleva sapere chi fosse il suo informatore. Eppure era stato gentile, garbato.
Lei era stata attenta a non lasciar trapelare nulla, ma forse non era stata abbastanza abile, rifletté in quel momento, forse lui aveva intuito qualcosa.
Alla fine l’aveva accompagnata alla porta, ed era successo.
Si erano messi le mani addosso nello stesso istante.
Frenetici, affamati.
Le narici di Corvino si erano allargate e l’aveva annusata. Un lungo, inebriante respiro che aveva stordito anche lei.
«Lo vogliamo entrambi, vero?» le aveva chiesto, bloccandola con tutto il suo corpo solido contro il muro. Era un vizio, ma Eva lo apprezzò fino in fondo.
«Tutti e due, sì» aveva rantolato strusciandosi contro quel corpo fermo, solido. «E voglio tutto, tutto quanto, Corvino.»
Anche adesso, mentre ci ripensava, era certa che neppure per Valerio ci fosse stata premeditazione.
«A cosa stai pensando?»
Sdraiato accanto a lei, non era meno impressionante che in piedi.
«Al fatto che sono riuscita a depistarti. Ho tenuto la bocca chiusa e non scoprirai mai chi è il mio informatore.»
«Non direi. Non me lo hai detto perché abbiamo cominciato a baciarci. Sappi che ci sto lavorando.»
«Tu mi hai baciata.»
Lui le sfiorò le labbra con il pollice.
«È colpa tua, hai questo profumo irresistibile.»
Con una mossa troppo rapida per poter essere contrastata, la fece sdraiare sulla schiena. Da quella posizione che esaltava la sua supremazia, puntò gli avambracci sul materasso.
«Eva.»
Pronunciò il suo nome con voce roca, lei gli insinuò le dita tra i capelli.
Meraviglioso contatto.
Con una mano lo cercò. La pelle le sembrò seta sotto le dita, carne dura che sussultò come per capriccio quando l’accarezzò e chiuse le dita.
«Più forte» ordinò Valerio e subito premette la bocca contro la sua.
Lo stomaco di Eva parve sciogliersi, scivolarle fuori dal corpo. Il bacio fu avido e appassionato, la lingua di lui si spinse in profondità mentre le sue mani le percorrevano la pelle come in cerca di sentieri misteriosi.
«Non dovrai rispondere alle mie domande, non ora» farfugliò contro le sue labbra. «Ho bisogno di te.»
I muscoli del suo petto erano già un argomento di persuasione sufficiente ma, nel momento in cui premette la punta della sua erezione là dove doveva essere, per Eva ogni argomentazione divenne inutile.
La stuzzicò per un attimo, poi si immerse dentro di lei.
«Oh sì» gemette arcuando la schiena e pensò che a Michela non avrebbe raccontato niente.
Proprio un bel niente.